Cosa non torna nella morte del fotoreporter Andrea Rocchelli

 

Il luogo dove è morto Andrea Rocchelli

 

Il 29 settembre si apre il processo di appello per la morte del fotoreporter Andrea Rocchelli e del suo interprete Andrei Mironov, uccisi il 24 maggio 2014 da alcuni colpi di mortaio in Ucraina orientale. Fin’ora l’unico accusato e condannato in primo grado a 24 anni di carcere è Vitaly Markiv, soldato dell’esercito ucraino. Per capire cosa sia accaduto e se sia veramente lui il colpevole, quattro giornalisti, Cristiano Tinazzi, Olga Tokariuk, Danilo Elia e Ruben Lagattollao, hanno realizzato un documentario inchiesta dal titolo “The wrong place”.  

Cristiano Tinazzi, inviato di guerra, è il regista. Che cosa emerge dalla vostra inchiesta?

Sostanzialmente l’inchiesta smonta quasi completamente la ricostruzione fatta durante il processo di primo grado. Siamo partiti dalla lettura delle carte processuali e abbiamo portato le carte sul terreno, a Sloviansk dove abbiamo effettuato tre sopralluoghi. In contemporanea abbiamo svolto una indagine parallela che ci ha permesso di ritrovare numerose persone, sia giornalisti che militari che civili, presenti in quei giorni nella cittadina ucraina e soprattutto due testimoni chiave dell’attacco mortale: l’autista del taxi che portava giornalisti e un civile che passava casualmente nell’area e che si è rifugiato con loro in un fossato durante l’attacco. 

 

Cristiano Tinazzi, regista del documentario “The wrong place”

Che cosa invece non torna nella ricostruzione processuale?

La mancanza di un sopralluogo da parte degli inquirenti ha determinato l’impossibilità di fare analisi del terreno e di valutare distanze, visibilità  e dinamica dell’attacco, basando tutto l’impianto accusatorio su una unica testimonianza, quella del fotoreporter francese William Roguelon e sull’analisi di cartine ricavate da Google Earth, che rendono impossibile valutare se vi era o no visibilità dalla collina di Karachun, il luogo dal quale sarebbero partiti i colpi di mortaio. La stessa testimonianza di Roguelon messa a confronto con le altre due che abbiamo ritrovato non combacia e riporta diverse incongruenze con la dinamica degli eventi che abbiamo ricostruito. 

 

Il lavoro di inchiesta sulla morte di Rocchelli

Qual è la situazione che avete trovato sul posto? 

La zona dove abbiamo principalmente lavorato da diversi anni è lontana dal fronte di guerra e abbiamo trovato collaborazione sia da parte della autorità locali sia da parte di civili e colleghi internazionali. Il campo di lavoro in realtà è stato molto più vasto. Siamo stati a Mosca, a Kiev, a Parigi e all’Aia per intervistare giornalisti che in qualche modo hanno interagito con Rocchelli e Mironov  e che ci hanno permesse di fornire un quadro abbastanza dettagliato dei loro movimenti e di quanto avvenuto il giorno della loro morte e nei giorni precedenti. 

Come si è svolta l’inchiesta?

Abbiamo utilizzato diverse tecniche: da una complicata e laboriosa investigazione  giornalistica durata più di un anno a una serie di strumenti specialistici, come la mappatura con un drone di tutta l’area e la conseguente elaborazione di un modello di elevazione digitale del terreno, che ci ha permesso di fare test tecnici di visibilità dalla collina dove era presente il soldato al luogo dell’attacco. Inoltre, abbiamo effettuato diverse prove pratiche utilizzando ottiche di diversa potenza e, infine, abbiamo effettuato dei test di tiro in un poligono militare insieme a personale specializzato proveniente dall’Italia. Oltre a questo ci siamo avvalsi della consulenza di esperti di questioni militari, come il Generale di divisione Luigi Scollo, ex comandante della Brigata Garibaldi, che ci ha fornito approfondite spiegazioni tecniche. 

Conoscevi Andrea Rocchelli? Perché avete deciso di indagare sulla sua morte?

Andrea non lo conoscevo e ho saputo di lui solo quando è avvenuta purtroppo la tragedia. Idem per Mironov, ben conosciuto anche in Italia per le sue battaglie per i diritti umani insieme al Partito Radicale Trasnazionale. In quel periodo avevo noleggiato dei giubbotti antiproiettile a diversi colleghi, e monitoravo la situazione giorno per giorno. Seguivo i loro spostamenti e l’evoluzione del conflitto dal 2015. E poi mi sono recato più volte nell’area, sia con i separatisti che con i governativi. 

Che idea ti sei fatto della vicenda?

Un gigantesco pasticcio, se possiamo chiamarlo così. Un caso che a mio avviso rischia di non rendere giustizia alla memoria dei colleghi morti e neanche  a chi oggi è costretto in cella accusato di un crimine orrendo.

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