“La mia fuga tra gli spari dal sud Sudan”

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Con la guerra impossibile portare aiuti


“Le sparatorie sembravano non finire mai. Poi c’erano esplosioni fortissime come quando un carro armato ha distrutto la casa del vice presidente”: ha vissuto momenti difficili Anna Sambo che si trovava a Juba, capitale del Sud Sudan, nel momento in cui è esplosa una nuova guerra tra diverse fazioni armate. Lei, come altri operatori umanitari italiani, sono stati evacuati in tutta fretta con un ponte aereo militare organizzato dall’Unità di crisi della Farnesina.

Anna Sambo ha 36 anni ed è milanese. Da diversi mesi in Sud Sudan era la coordinatrice dei progetti dell’associazione Avsi ai quali lavorava con altri 8 italiani e un centinaio di locali.

Anna Sambo responsabile Sud Sudan per Avsi

Anna, qual è stato il momento più difficile?
“Sicuramente il giorno prima dell’evacuazione. I combattimenti si erano placati ma a Juba arrivavano voci incontrollate di soldati che stavano scendendo dalle montagne per prendere la città. C’era il timore di una pulizia etnica e chi poteva si rifugiava nelle basi delle Nazioni Unite. Temevamo chiudessero l’aeroporto, le linee telefoniche non funzionavano”.

Come è avvenuta l’evacuazione?
“Eravamo in stretto contatto con Avsi a Roma e con l’ambasciata italiana ad Addis Abeba. Ci hanno informato del ponte aereo e noi all’alba abbiamo organizzato un convoglio. Era la prima volta che uscivamo dal nostro compound dove eravamo rimasti chiusi dall’inizio degli scontri. Una parte del personale è andato in Uganda via terra, noi siamo andati all’aeroporto”

Cosa hai visto per strada?
“Era pieno di soldati e c’erano molti posti di blocco. Ho visto per la prima volta anche molte donne armate e in divisa. Ma tutto è filato liscio fino all’aeroporto”

Come è cominciato tutto?
“Eravamo a cena e parlavamo di come le cose si stessero mettendo bene in Sud Sudan. Ci ha chiamato un collaboratore dicendo che sulle montagne erano cominciato dei combattimenti. Poco dopo anche a Juba nel cuore della notte abbiamo sentito spari ed esplosioni. In cielo c’erano lampi di luce. Al mattino le sparatorie sono diventate intensissime con colpi di mortaio sempre più vicini”.


Avete capito cosa è successo?
“La violenza è stata inaspettata perché l’atmosfera era tranquilla nonostante tutti girassero con le armi dopo gli anni della guerra con il Sudan fino al referendum che ha sancito la nascita del nuovo stato. Le prime notizie parlavano di uno scontro tra diverse fazioni dell’esercito e la guardia presidenziale. Il presidente è apparso in tv in divisa militare e ha parlato di tentativo di colpo di Stato”.

Si parla di possibile pulizia etnica, avete avuto segnali in questa direzione?
“C’erano voci che i soldati cercassero gli appartenenti alle diverse tribù. Ci sono i Nuer, agricoltori stanziali, che sostengono l’ex vicepresidente Riech Machar e i rivali Dinka, pastori nomadi che sostengono il presidente Salva Kiir. In realtà la convivenza tra le due etnie era tranquilla. I nostri collaboratori che appartenevano ad entrambe al massimo si prendevano in giro tra loro per le diverse origini”

Che progetti avete in Sud Sudan?
“Abbiamo tre basi, a Juba, Torit e Isoche. Un progetto sanitario che prevede visite mediche e distribuzione di farmaci nei villaggi più remoti. E un progetto educativo con il Ministero degli Esteri mirato soprattutto alla formazione di insegnanti in particolare per le scuole elementari”.

Che previsioni puoi fare per il Sud Sudan?
“Era un paese già disastrato, uscito da una lunga guerra e con povertà altissima. In giro ci sono tante armi. Le ultime notizie dicono che si combatte sulle montagne e si parla soprattutto dei pozzi petroliferi. Il timore è che non si tratti di uno scontro mirato a qualcosa, con un obiettivo definito, ma che la situazione possa sfuggire ad ogni controllo”.