Siria: “La finta strage del pane”

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“Ho visto una delle stragi del pane ad Halfaya, a sud di Aleppo. In realtà mi è sembrato tutto preparato, una messa in scena. I ribelli mettevano i pezzi di pane nelle pozze di sangue per fare le riprese televisive e dare la colpa al regime. Secondo me non c’era neppure stato un bombardamento aereo, ma una bomba piazzata all’interno della panetteria”. Ha pochi dubbi Danilo Calogiuri, fotografo leccese di 31 anni, che in Siria ha trascorso due mesi: quella che ha visto era una delle tante operazioni di disinformazione in atto nel paese in guerra. Ex militare dei “Combat Camera Team” dell’esercito italiano ora Danilo lavora per Whiroo photo. Le sue immagini sono state pubblicate da molti giornali, a cominciare dal New York Times.

Perché ritieni che quella strage fosse un falso?
“In Italia le notizie arrivano quasi esclusivamente dal fronte dei ribelli e sono senz’altro di parte. Nei dintorni dell’edificio esploso ad Halfaya dove sono arrivato pochi minuti dopo la strage c’erano una ventina di corpi, quasi tutti con la divisa. E’ stato invece raccontato che c’erano oltre cento morti, soprattutto donne e bambini.”

Come fai a dire che quella era una messa in scena?
“Io sono stato militare in Afghanistan e conosco queste cose. Sulla base della mia esperienza, parlo a titolo personale, le tracce che c’erano non erano di una bomba caduta dal cielo. Solo i ribelli potevano fare le riprese, a me hanno impedito di fare foto.”

Come sei arrivato in Siria?
“Ho conosciuto un siriano in Italia che mi ha dato un contatto con cui mi sono ritrovato al confine con la Turchia. Lui mi ha portato nella zona di Aleppo dove ho seguito i combattenti del Libero Esercito Siriano, la formazione militare dei ribelli”.

Danilo Calogiuri

Che cosa ti ha colpito di più?
“Non è più la rivoluzione dei giovani che tutti noi credevamo. Ora quei ragazzi sono pedine nelle mani di poteri molto più grandi”

Hai avuto paura?
La difficoltà maggiore è superare la paura di raccontare il coflitto solo da un punto di vista. Se sei con i ribelli loro ti fanno vedere quello che vogliono. Non puoi raccontare anche l’altro punto di vista”

Hai visto anche le milizie islamiche?
“Si, si muovevano su pickup armati fino ai denti. Avevano buone armi a differenza di quelle del Libero Esercito. Ma non volevano essere ripresi e non permettevano di entrare nelle loro basi. Avevano le bandiere nere della Jihad”

In che stato era Aleppo?
“La città è in gran parte distrutta, soprattutto i quartieri ovest dove si continua a combattere. La cittadella storica è ridotta in macerie. Tutti gli edifici sono occupati da combattenti. Quando attraversi gli incroci devi correre perché i cecchini sparano.”

Il fotografo in azione

Come ti muovi in queste situazioni?
“Io faccio un lavoro un po’ diverso dai normali reporter. Mi muovo da solo, spesso con la gente del posto. In Siria la gente è molto ospitale e c’è una grande apertura al resto del mondo. Molti parlano inglese, persino italiano”

Che tipo di attrezzatura porti con te?
Due reflex con ottica fissa, un 24 millimentri e un 50. Per inviare le foto dovevo però tornare al confine con la Turchia perché ad Aleppo mancava persino al corrente elettrica. Figuriamoci la connsessione ad Internet.”

Che tipo di foto hai fatto?
“Dopo aver visto tanto sangue in Afghanistan ho scelto di raccontare la guerra senza mostrare feriti o morti. Descrivo la guerra attraverso i volti delle persone, la loro vita quotidiana. Ho fatto un lavoro intitolato “Bombs fall” in cui si ritraggono le donne che per strada guardano il cielo per capire se arrivano i bombardamenti prima di andare a fare la spesa.”

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