Giornalisti a lezione di guerra

All’estero è quasi obbligatorio, in Italia sta cominciando a diventare una prassi: i giornalisti, i cameraman e i fotografi che vanno sui fronti di guerra devono essere adeguatamente preparati. E così dopo i corsi lanciati dalla Federazione Nazionale della Stampa Italiana assieme allo Stato Maggiore della Difesa, al Corso in memoria di Maria Grazia Cutuli, nascono stages e training camp destinati ai cronisti che vanno a raccontare quanto avviene al fronte con quale nozione sui rischi e la sicurezza. Da pochi giorni si è concluso ad Arvier (val d’Aosta) il primo War Reporting Training Camp. “Chi va in zone di guerra deve essere preparato” ci spiega cristiano Tinazzi, inviato su diversi fronti di guerra, uno dei fondatori dell’iniziativa.

“Fino a qualche anno fa, soprattutto nella ‘vecchia guardia’ degli inviati” spiega Cristiano “c’era poca attenzione alla questione sicurezza, sia personale sia del luogo dove ci si doveva recare. Oggi gli inviati sono sempre meno e i tempi sono cambiati. Una volta anche sui cantieri nessuna metteva l’elmetto, ma metterlo può salvare la vita. E la stessa cosa deve valere per chi opera in aree di crisi. “Safety first” deve valere pure per noi. C’è un cambio generazionale e professionale: aumentano i giornalisti freelance, che non possono avere una struttura alle spalle in grado di intervenire in caso di bisogno e una solidità finanziaria ridotta. Ecco allora che la questione sicurezza e la preparazione diventano ancora più importanti, a scapito di atteggiamenti a volte ‘romantici’ in contesti in cui è necessario essere invece pragmatici e attenti a tutto”.

Quali sono le cose più importanti da sapere per gli inviati di guerra?

Sicuramente conoscere a fondo il posto dove si deve andare ad operare. Oggi internet ci permette di rendere più semplici questo tipo di operazioni. L’intelligence di tipo Osint (fonti aperte) o Humint (fonti sul posto) è basilare nella preparazione di un viaggio in zone sensibili. E’ necessario avere una conoscenza aggiornata della situazione sul campo e per fare questo serve tempo. Internet, come dicevo, oggi ha facilitato questo tipo di ricerche ma serve sempre anche una preparazione storica, culturale e politica su luoghi e Paesi. Oltre a questo si deve capire cosa si deve e non si deve portare. Vale la stessa logica dell’escursionismo. Il peso è un nemico per chi deve portarsi addosso tra attrezzatura e equipaggiamento di protezione anche 15 kg, quindi a monte si deve capire anche come preparare uno zaino e la distribuzione del peso, cosa è utile e cosa no.

Quanto dura e come si svolge il corso che organizzate?

Il corso ha una durata di cinque giorni pieni, con lezioni pratiche e teoriche. Dopo diverse esperienze di training sia in Italia sia all’estero, ho cercato di trovare, insieme al collega Ugo Lucio Borga , un modulo che avesse caratteristiche simili ai corsi HEAT (Hostile Environment Awareness Training) con in più moduli sul primo soccorso (Basic Life Support e trattamento traumatizzati) in zone di guerra. In Italia i pochi corsi esistenti sono incompleti o non accessibili a tutti quelli che realmente lavorano, come i corsi gestiti per giornalisti che non riguardano fotografi e videomaker, spesso non iscritti all’Ordine dei Giornalisti. Era necessario quindi provare a coprire un buco. Ci sono poi corsi solo per chi lavora embedded (cioè assieme alle truppe sul campo) o con costi proibitivi. La nostra ‘scuola’ invece è focalizzata sui principalmente sul modus operandi dei freelance, che attualmente è il vero asse portante del giornalismo italiano ed internazionale per quel che riguarda la copertura di fronti di guerra e crisi.

Chi sono i giornalisti che hanno finora partecipato?

Fotografi; operatori umanitari; reporter che hanno già lavorato in teatri di crisi “embedded” e non; curiosi e colleghi ancora ‘vergini’.

Le condizioni di sicurezza per la stampa nelle zone di guerra negli ultimi anni sono cambiate?

Come ho detto, è cambiata la figura del reporter, diventato un personaggio scomodo o possibile merce di scambio. Le statistiche d’altronde parlano chiaro: nell’ultimo biennio in Italia abbiamo avuto due colleghi morti, uno in Ucraina e uno a Gaza, e in Siria tre freelance spagnoli sono tutt’ora dispersi, mentre altri tre sono stati uccisi dall’Isis.

Ti sei mai trovato in situazioni di grande pericolo e come hai reagito?

Sì, è successo diverse volte. In Libia la macchina sulla quale viaggiavo è finita in una imboscata ed è stata crivellata di colpi. Non so come io e un collega siamo riusciti ad uscirne vivi. Altre volte mi sono trovato sulla prima linea, come in Siria, sotto diretto attacco di elicotteri o colpi di artiglieria. Ora, se posso evito di infilarmi in situazioni ad altissimo rischio se non c’è assoluta necessità dal punto di vista professionale.

Qual è una cosa che hai imparato sul campo e che non si può insegnare in un corso?

La fortuna e l’esperienza. Sono due cose che non si possono insegnare. La prima è la tua buona sorte, o un angelo per chi ci crede; la seconda si forma con il tempo. Però l’esperienza si può utilizzare per fornire informazioni utili a chi ancora non ne ha. Da qui però poi a metterle in pratica c’è tutto un mare di mezzo.

Spesso soldati e personale umanitario tornati a casa soffrono di PTSD. Vale anche per i giornalisti? E come si affronta?

Sì, la PTSD è un problema molto serio che negli ultimi anni è stato affrontato anche da diverse organizzazioni internazionali come Il Dart center, centro ricerche e think tank dedicato proprio ai giornalisti che hanno coperto (e subito) eventi traumatici. In Italia non è neanche riconosciuto come disturbo mentale. Serve un supporto medico specifico, che sia uno psichiatra o un psicoterapeuta, ma è una malattia cronica dalla quale difficilmente si riesce a uscire completamente.

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